I

UNA VITA PER LA POESIA

«Sic me contingat vivere sicque mori»: è l’insegna alla quale, sulle orme dello Harington, i devoti dell’Ariosto possono affermare la loro aspirazione ad una vita di fuochi tranquilli e costanti, di silenzioso sviluppo di sogno entro una cornice di atti quotidiani senza pretese, e il loro sguardo ad una vita trasposta in un ritmo medio di poesia dalle Satire può struggersi di fronte a quegli interni pacifici, a quei gesti essenziali e negletti, a quel beato viaggio sul mappamondo, al cruccio dolcemente egoistico di comodità sobrie e rapite da una sorte maligna ma non spietata. E il baldiniano «Lodovico della tranquillità» (in cui passa la suggestione del boccaccesco Iohannes tranquillitatum) accentua il calore tra ferrarese e romano dell’antiascetico lodatore di bellezze femminili o del seccatissimo ed eroicomico governatore della Garfagnana. Ma queste grazie, sottolineate da calligrafie ben piú grosse e carnose di quella genuina, finiscono per sfarsi in discutibile pittoresco come riducono e deformano il vero valore di una costatazione preliminare: la vita dell’Ariosto è una vita che si sottrae al romanticizzamento avventuroso, che è difficilissimo trasformare in una qualsiasi «storia di un’anima», in dramma ideologico e spirituale (un Tasso, un Dante, un Petrarca), che è priva di ansie eppure non priva di quella tensione e attenzione pensosa, di quella cognizione della rugosa realtà («in questa assai piú oscura che serena / vita»[1]) che altrove sfociano in dramma, problema, rivolta.

È possibile invece vedere questa vita esemplare, estremamente istruttiva per i rapporti vita-poesia ed estremamente coerente con il tono poetico che nella sua maggior purezza raggiunge l’esperienza dell’Ariosto, senza forzature indebite e ricercandovi non tanto linee di caratterizzazione gustosa (presi troppo dalla trasfigurazione volontaria delle Satire) quanto la giusta situazione di un atteggiamento umano ed estetico che non implica alcuno scambio estetizzante dei due termini e la loro reciproca falsificazione. È possibile indicare, ad esempio, come luogo d’incontro di vita e poesia, quel fondo di serietà semplice, di gusto delle cose che perfino i poeti romantici affidano al loro epistolario: sí che la faccia corrucciata dell’Alfieri si spiana in un idillio insospettato in certe lettere che parlano di stufe, di cioccolato, di appartamenti. O quell’attaccamento alle cose comuni ed agli affetti essenziali, quel saper dare una linea alle proprie azioni senza portarle mai su di un piano programmatico (senza farsene un programma di azione e di moralità esplicita), quel certo fastidio delle cose pratiche pur vivendole e gustandole in quanto costituiscono abitudine e clima della nostra giornata, quel lamentarsi, che si sente già da sé esagerato e poco drammatico, di faccende che però si compiono senza ribellione: sono caratteri che allontanano l’Ariosto dal «genio» scattante e dolente come l’Ottocento ce lo ha rappresentato e lo avvicinano ad una umanità intensa e semplice, istintiva nella sua apparente mediocrità e che ci appare essenziale in uomini, che con modestia di artigiani vivono l’arte senza boria, senza gesti, senza giustificazioni a ritroso, mantenendo le loro azioni nella misura piú istintiva e civile. Ci sono poeti vistosi e spesso retorici che hanno bisogno di rivelarsi sul piano pratico e di imprimere i loro monogrammi fastosi su ogni minima azione, mentre poeti piú intimi riservano ai loro vizi e alle loro virtú uno stadio di sincerità e di sobrietà intatte da ogni moda esteriore. Tanto che questo atteggiamento semplicemente umano ed assorto (e senza gusto di falsa primitività) pare distinguere proprio coloro che del tempo hanno un sentimento interiore che li sottrae alla rovina dei programmi e degli impegni e che piú si conservano in una condizione poetica che non è lo stato di trance della pitonessa, ma piuttosto una profonda attenzione ai movimenti dell’intima fantasia, una lettura costante e piena di un testo di sentimenti e di impressioni. Un atteggiamento che si può sentire in un Boccaccio, in un Orazio, e che se naturalmente non può indicarsi come sine qua non di ogni vita poetica, si ritrova essenzialmente anche nei piú allucinati, nei piú «visionari», e si impianta bene e in modo caratteristico nel clima umanistico-rinascimentale, in un clima di armonia non ricercata ad ogni costo, ma vissuta in concrete forme di civiltà.

Ma è pur chiaro che questo tentativo di riconoscere nell’atteggiamento ariostesco uno speculum di vita di poeta si limita poi in concreto all’illuminazione piú larga di una particolare individualità, vista sempre dalla parte dell’opera nella sua vita intera. Anche l’accenno fatto ad Orazio va subito limitato per non calcare su di una linea della fisionomia ariostesca che neppure nelle Satire è completamente ritrovabile se non con una volontaria falsificazione. Orazio, che certo l’Ariosto amò e risentí nella sua formazione, è troppo esplicitamente e programmaticamente maestro di saggezza poetica e di sobrietà edonistica e nel suo sguardo pacato c’è una lentezza di buon senso poco sollevato da un primato della fantasia, il suo ricorso alle cose nella loro concretezza è troppo gustato e si traduce facilmente nella sua poetica del verosimile e dell’utile dulci. Mentre l’attacco ariostesco fra vicenda umana e storia poetica è piú spontaneo, mai moralistico e mai programmatico sí che i fatti, gli avvenimenti si sciolgono facilmente in modi di vivere, in apprensioni di realtà assunte nel loro significato piú vasto di accenti del ritmo vitale di cui pochi poeti han sentito l’unità e la preminenza al pari dell’Ariosto sapendo mantenere alla poesia la sua destinazione di alleggerimento, di astrazione stilistica che diventerebbe gusto di decorazione calligrafica se non fosse calda di una sua umana contemporaneità.

Cosí se si indaga nell’Ariosto la nascita della poesia, attraverso le prove dirette e le testimonianze dei biografi, ci si accorge che non di conformismo ossequente si può parlare, ma certo di un bisogno di innovazione solo in forme «contemporanee», di ricerca di originalità solo nel tono poetico, non in schemi esterni accettati senza superbia[2]. E perfino la legittima impressione che alcune liriche avessero lo scopo di una suasione amatoria impegna ancor piú a sentire la nascita alla poesia nell’Ariosto non come sconvolgente rivoluzione interiore, ma come naturale e familiare consenso della fantasia a motivi vitali e viceversa dell’esperienza ai diritti di una superiore realizzazione autorizzata dalla salda presenza di forme artistiche contemporanee. Prime prove che d’altra parte non ci individuano precise esperienze sentimentali e che ci indicano solo con la loro presenza numerosa una gioventú felice e senza cure nel clima di una città passata da uno stadio di ricca libertà comunale a sede di una signoria rinascimentale ancor permeata di un gusto cavalleresco e feudale: in un clima meno florido della Roma papale, meno raffinato di quello della Firenze medicea, meno tardivamente feudale di quello di altre corti del Nord. Tutti i nomi femminili che compaiono nelle liriche latine, a parte la loro convenzionalità classicistica (Philiroes, Phillis, Lyda ecc.), sono piuttosto simboli di un motivo edonistico, vivo come guida di un esercizio stilistico che spesso non viene neppure minimamente coperto da preoccupazioni di verosimiglianza (il rapido bisticcio, ad esempio, a cui si presta un nome nel suo pretesto di giuoco di abilità: «Es Veronicane? an potius vere unica? quae me / uris ecc.?»[3]), sí che gli «amori» dell’Ariosto possono risolversi in un esercizio classicistico dietro cui siano umilissime avventure legate a quell’espressione dal loro stimolo di letizia, giovanile tensione e appagamento. Nel libero mondo dei sensi di cui egli sempre ci parla con una libertà che non è cinismo e senza quell’accentuazione di cupidigia che è divorante in certe lettere del Machiavelli, l’amore, l’avventura amorosa mantengono sempre nell’Ariosto un senso di letizia edonistica che può salire ad un platonismo rapidamente calato in adorazione sensuale e scendere a un immediato trionfo del piú casuale godimento.

Vivissimo ispiratore di tanta poesia dell’Orlando, e precisato secondo il modello petrarchistico nelle Rime, l’amore è per l’Ariosto del periodo giovanile, alla nascita della poesia, l’elemento integrante di una vitalità gioiosa, quasi il simbolo lieto dell’armonia vitale, di quella edonistica serenità che è al fondo del suo carattere senza privarlo della sua complessità. Cosí che nella elegia De diversis amoribus il motivo della volubilità del suo carattere si appoggia sulla sua volubilità amorosa in un motivo di piacevole armonia, quasi di simbolo estetico di amore per l’onda incessante e mutevole della vita lontana da ogni schematizzazione di carattere moralistico e programmatico.

Est mea nunc Glycere, mea nunc est cura Lycoris,

Lyda modo meus est, est modo Phillis amor.

Prima Glaura faces renovat, movet Hybla recentes,

mox cessura igni Glaura vel Hybla novo[4].

Esperienza varia e non drammatica dell’amore e delle donne (che nella Satira V saranno considerate con un equilibrio molto italiano, non privo di sfumature galanti e di comprensiva simpatia virile:

S’in cavalli, se ’n boi, se ’n bestie tali

guardian le razze, che faremo in questi,

che son fallaci piú ch’altri animali?)

(vv. 100-102)

che permane nella maturità e si accompagna a quella meticolosa discrezione di amoroso non casanoviano con cui l’Ariosto velò i suoi amori (il famoso amorino con il dito sulle labbra, del leggendario calamaio), che spesso dalla cronaca spuntano come umili avventure di domestiche e di popolane anche se motivo di petrarchesche trasfigurazioni (la nota gatta del Petrarca come ne parla l’Alfieri!) e riprova dell’attacco fresco e semplice con cui la fantasia ariostesca prende contatto con la realtà senza preordinati sogni estetici.

Attacco diretto fra vita e visione artistica in cui la cultura non costituisce diaframma di soprastrutture e di pregiudizi boriosi. E se l’Ariosto aderisce alla mentalità del suo milieu, non ne nutre le esagerazioni conformistiche. Cosí va giudicata la sua cortigianeria: non come condizione spirituale di cui certi umanisti sono lieti e orgogliosi («il cortegiano»); né d’altra parte si deve, sulla falsariga del ritratto troppo coerente delle Satire, far di lui quasi un romantico sdegnoso di ogni obbedienza, geloso della sua assoluta indipendenza personale, quasi nel senso di quel letterato di Del principe e delle lettere che l’Alfieri vien proprio a contrapporre ai letterati cortigiani tra cui include lo stesso Ariosto. Si tenga conto che i numerosissimi lamenti contro la vita di corte e il servizio dell’«Erculea prole», contenuti nelle Satire, risentono in parte di una tradizione letteraria e in parte nascono da un fastidio non convenzionale in uno spirito schiettamente poetico per un’attività che lo distraeva dal suo gusto di una vita tranquilla come vestibolo indispensabile al regno della fantasia, come punto di vista e di partenza per il suo viaggio poetico. Se il problema della cortigianeria non era sentito nell’epoca se non come mancanza eventuale di misura o come stimolo a vane ambizioni, l’Ariosto sentí il suo servizio come una limitazione seria della sua libertà in quanto possibilità di quiete, di attenzione tranquilla, condizione dell’aprirsi della fantasia dai beati vestiboli del silenzio e dell’immobilità. Non c’era in lui umiliazione morale o disagio nell’approfittare di un mecenatismo che anzi lamentava troppo avaro e mal disposto. E viceversa le sue adulazioni vanno prese alla stessa stregua delle invettive contro i tiranni (e artisticamente quasi un fregio sontuoso di uno stemma che non impegna moralmente l’artista cinquecentesco) e contro gli adulatori, che, mentre esprimono risentimento contro l’eccesso, la mancanza di misura entro schemi oraziani, vanno considerate non come ritrattazioni delle espressioni cortigiane, ma come altri motivi di arricchimento estetico: non come impegnative rivolte, ma al massimo come momentanei sfoghi facilmente rasserenabili nel fondamentale interesse di conoscenza poetica di un sopramondo fantastico in cui vive veramente l’animo «tutto umano» dell’Ariosto.

Né sdegni brutiani né viltà cortigiane e mescolanza di satira e adulazione sullo stesso piano decorativo (sí che nelle liriche latine ad un distico irrispettoso, il LVI, sugli Este, segue uno sperticato elogio di Ippolito), e piuttosto una serietà in un altro piano di coerenza personale e di dignità poetica.

Certo può colpire che l’Ariosto nell’Ecloga I sanzioni l’orribile violenza di Alfonso e di Ippolito contro i fratelli Ferrante e Giulio, ma è ingenuo inserire l’Ariosto in un giudizio storico a posteriori e volerlo rendere estraneo allo spirito cinquecentesco del diritto della forza e del signore. Era l’epoca in cui il Principe, pur nella sua rivoluzionarietà, doveva apparire non in contrasto con il piú generale modo di sentimento e di giudizio, e la tenace ragione per cui le Signorie si erano impiantate e resistevano, il desiderio cioè delle forze borghesi e aristocratiche di non essere disturbate da sussulti comunque originati, teneva alto posto nell’«ordine» di quella civiltà. Ragione di vita di un’epoca storica di cui l’Ariosto si faceva eco nell’ecloga citata con una esagerazione tendenziosa che rivela però il suo istintivo e storico conservatorismo:

Prima ai nimici, e poi veniano a’ ricchi,

fingendo novi falli e nòve leggi,

perché si squarti l’un, l’altro s’impicchi […].

Qual cosa non faria, qual già non fece

un popolar tumulto che si trove

sciolto, ed a cui ciò ch’appetisce lece[5]?

Fedeltà intima a certi motivi essenziali del suo tempo e fedeltà al suo bisogno di un ordine civile per la sua elaborazione del ritmo vitale colto sotto le forme della civiltà e nel moto delle cose e degli affetti essenziali. Figlio di una aristocrazia borghesizzata, ancora capace di prendere la spada in pugno nella guerra sotto le insegne del signore, ma piú lieta di una vita agiata e tranquilla, l’Ariosto è pur lontano dal modello di un Sancho, e ricco di impeti generosi e combattivi. «Che cuore aveva l’Ariosto!», ma d’altra parte se la frase desanctisiana coagula e liricizza l’impressione dell’animo ariostesco, della sua altissima possibilità di adesione su piano umano e poetico a motivi di intensa commozione, non si può arrivare alla precisazione di certi atteggiamenti pratici che una critica deteriore potrebbe prendere anche a spiegazione dell’Orlando. Cosí il preteso patriottismo dell’Ariosto che ha fatto fremere qualche vecchio trombone provinciale, cosí la satira antiecclesiastica tanto comune nel poema. Inutile insistere sul primo, tradizionalmente basato sulle invettive antistraniere quanto mai volubili e fugaci: sin dal ’94, ad esempio, in occasione della discesa di Carlo VIII, il giovane poeta scrisse due componimenti dello stesso argomento (Ad Philiroën, Ad Pandulphum) in cui lo stesso accenno alla calata del re francese serve in un caso ad un contrasto sanato in edonistica indifferenza, nell’altro ad una brusca interruzione dell’idillio amoroso: «me nulla tangat cura»[6], «Hic est qui super impiam / cervicem gladius pendulus imminet»[7].

E accanto alla famosa invettiva del XXXIV («Oh famelice ecc.») si trovano nel poema le lodi di Francesco I e di Carlo V, l’esaltazione dei vari signori che erano la causa della disunione e della debolezza italiane. Mentre il lamento per le sciagure italiane nasce coerentemente dal senso rinascimentale di una catastrofe di condizioni di vita civile, della perdita del «bel vivere».

Il bel vivere allora si summerse;

e la quïete in tal modo s’escluse,

ch’in guerre, in povertà sempre e in affanni

è dopo stata, et è per star molt’anni.

(XXXIV, 2, vv. 5-8)

Né molto di piú possiamo trovare circa un preciso sdegno ideologico o di un voltairiano disprezzo nei riguardi della religione tradizionale. Chi legge certe ottave contro la corruzione del clero e specialmente contro i frati (per esempio la scintillante descrizione del convento dove viene ritrovata la Discordia, nel canto XIV) o certe espressioni di unzione ironica, potrebbe credersi di fronte ad una precisa posizione ideale.

Ma piú che una posizione combattiva bisogna accertare le condizioni di una interessante coerenza ariostesca. Vi era una tradizione letteraria specialmente novellistica antiecclesiastica e soprattutto antifratesca e il Cinquecento, portando a maturazione l’aspirazione umanistica ad un pieno e sincero possesso della vita, aveva esasperato ogni atteggiamento antiascetico e ridicolizzato ogni sforzo (come inutile od ipocrita) di inibizione al godimento dei beni mondani (l’eremita ed Angelica, mito del secolo). Ma ciò non implicava una rigidezza riformatrice da cui gli italiani erano immunizzati proprio dall’eccessiva soluzione in ridicolo di vizi e difetti che apparivano frutti naturali di una costrizione innaturale e a cui non avevano da opporre un ideale religioso diverso da quello tradizionale per il quale sempre le invettive anche belliane hanno costituito una potente valvola di sicurezza.

Come l’Ariosto non discuteva l’autorità del signore pur con la sua ironia sui tiranni, cosí, nel suo atteggiamento di poeta infastidito di ogni ricerca lontana dalla sua accettazione dei motivi elementari della vita e delle linee essenziali della civiltà, egli si precludeva ogni via di eresia con quel gusto antiastratto che italianamente si volgarizza nella distinzione di due piani, quello della vita pratica senza scrupoli e quello del culto accolto come indiscutibile.

Si legga la Satira VI dove il padre si preoccupa dei pericoli dello studio per il giovane Virginio. Sí, il filosofo può diventare eretico

perché, salendo lo intelletto in suso

per veder Dio, non de’ parerci strano

se talor cade giú cieco e confuso.

Ma tu, del quale il studio è tutto umano,

e son li tuoi suggetti i boschi e i colli,

il mormorar d’un rio che righi il piano,

cantar d’antiqui gesti e render molli

con prieghi animi duri, e far sovente

di false lode i principi satolli,

dimmi, che truovi tu che sí la mente

ti debba aviluppar, sí tòrre il senno,

che tu non creda come l’altra gente[8]?

(vv. 46-57)

Nei quali versi è da notare questo senso di sdegno sincero contro quei letterati che vogliono allontanarsi dal modo di sentire comune, dalla tradizione, dalla concretezza di una mentalità che non viene discussa come non vengono discussi i motivi naturali, i sentimenti umani di cui il poeta deve farsi interprete. Non tanto un conformismo pauroso («parum de principe, nihil de Deo») che piú si impadronirà dell’animo degli italiani con la Controriforma, ma un conformismo tradizionalistico, per amore di concretezza, per paura di uscire da una misura umana che appare all’Ariosto come essenziale base ad ogni espressione artistica.

Sulla misura umana si calcola anche il suo amore per una vita semplice e sedentaria e il risultato che egli traeva dall’esperienza delle preoccupazioni giornaliere, dei viaggi non amati e pure cosí pronti a passare come esperienza di disagio e di accettazione di movimento e di pittoresco nel tono medio delle Satire o come base concreta della geografia soprareale dell’Orlando. Viaggi ed esperienze che nel loro limite poco avventuroso e fastoso ci confermano l’immagine del viaggiatore sul mappamondo, dell’amante di una quiete casalinga e cittadina (quasi un umanistico e poetico travestimento di Kant) per una piena libertà poetica, in cui bene si inquadrano gli aneddoti del Pigna, del Fornari, di Virginio sulla sua distrazione, sulla sua sensibilità, sul suo carattere malinconico e pur festivo, che completano, fuori di figurini unilaterali, questa immagine cosí sensibile di uomo vivo per la poesia nel suo senso piú istintivo e civile, avviato da una esperienza immediata e spregiudicata ad una conoscenza superiore tutta poetica e non perciò ingenua o miracolosa.

Altro che i D’Annunzio con la loro vita punteggiata di avvenimenti tutti grandiosi e da raccontarsi in biografie sonanti e rapite! «Appetiva le rape» dice sommariamente uno dei capitoletti di appunti di Virginio e, in quella sobria nota pittoresca collegata agli altri aneddoti di una vita senza maschera e a certe caste indicazioni del suo amore dell’armonia («senza il cor sereno»), ci sembra di udire il timbro giusto di una vita non ornata di fastosi emblemi, ma intrisa di continuo sapore poetico. In modo che come, su altro registro, il tentativo di fuga dalla casa paterna del Leopardi ha una intensità maggiore delle avventure fiumane di D’Annunzio o delle vicende furfantesche e principesche del Marino, anche l’ingrandimento di piccoli fatti di cronaca assume nella vita dell’Ariosto un’importanza e un rilievo ben maggiore di quanto avrebbe una cronaca umana meno raccolta ed assorta. Riprove ben chiare: il rifiuto di seguire Ippolito in Ungheria e l’epopea eroicomica del governatorato garfagnino.

Quando l’Ariosto si rifiutò decisamente di andare in un esilio ai suoi occhi terribile, egli compiva un gesto che non può essere sollevato ad espressione di rivolta anticortigiana, ma sí a chiaro indice della sua disperata disposizione a difendere le condizioni essenziali della sua vita sentimentale e poetica, le abitudini, gli affetti, l’agio domestico e cittadino entro cui nasceva la sua soluzione in poesia. Il timbro di questo rifiuto diventa nelle Satire eroicomico e quasi abbondiesco, ma fuori di quella ricerca speciale di tono medio sottolinea la sua virile, umana concretezza che, aliena da gesti retorici, reagisce però con un vigore che può richiamare perfino certe cadenze dell’epistolario machiavellico, quando vengono messe in giuoco le ragioni piú elementari della sua condizione poetica. È su quella misura personale ed umana che i suoi rispetti cortigianeschi vanno valutati e il suo ideale di fedeltà tra feudale e rinascimentale è limitato da questa fondamentale spregiudicatezza che vibra profonda sotto il suo conformismo senza viltà. Tanto che il cortigiano Tasso nel suo Minturno ritagliava un ritratto negativo dell’Ariosto cortigiano: «l’Ariosto medesimo, che fu assai adoperato da’ suoi principi e poté avere esperienza eguale al sapere, ne l’azioni del mondo riuscí freddo anzi che no: e, vinto da pusillanimità, si ritirò da’ servigi di quel suo magnanimo cardinale»[9].

Anche il periodo garfagnino fornisce elementi preziosi per la conoscenza dell’animo ariostesco, per il suo attacco fra vita e poesia. Non è la descrizione di un contrasto piacevole fra il sedentario, distratto, timido di avventure di viaggio e meditativo («per lo piú alla solitudine si dava e d’essere in continova contemplazione mostrava nell’effigie» dice il Pigna[10]) e il commissario incaricato di tenere a bada un paese turbolento e disordinato; ché la comicità, facilmente ottenuta con il rilievo delle preoccupazioni dell’Ariosto sull’avvio della stessa Satira IV, deriva anche da un atteggiamento voluto, artistico, non da una confessione immediata. Ciò che veramente offre questo periodo è l’accentuazione in contorni piú vistosi di quei caratteri di umanità superiore, ma concreta, di meditazione non libresca dell’uomo che non voleva cedere la «h» nobilitante e non voleva costruire sul vuoto. «Appetiva le rape» e in questa designazione di umile, commovente semplicità ci sembra ancora di ritrovare il segreto dell’umanità profonda, senza soprastrutture filistee, che risentiamo anche nel fastidio dell’esilio garfagnino e nella cura con cui il poeta cercò di adempiere il suo ufficio di governatore: niente boria di chi d’altronde sente continuo il suo impegno poetico, niente letteratura come giustificazione precedente ai suoi atti (Petrarca e i posteri) che invece offrono integra una esperienza vitale al piú puro esercizio artistico. Questo periodo garfagnino è anche la stagione tipica dell’Ariosto epistolografo.

L’epistolario dell’Ariosto non è ricco di movimenti appassionati, di pretese letterarie e ad una lettura poco paziente può apparire grigio, estraneo allo spirito di un grande poeta, attribuibile quasi ad un uomo medio qualsiasi di quell’epoca: mancano lettere amorose, lettere di confessione, prevalgono lettere di affari scritte per scopi immediatamente pratici senza affatto il pretesto di lettera-saggio che il Cinquecento prediligerà. Pure lo stimolo pratico che le esclude dalla ricerca letteraria dell’Ariosto non è sempre cosí assillante da divorare quella pace creativa essenziale a superare la piú immediata volontà di comunicazione, e spesso una lettura spregiudicata (e solo cosí si può trovare la personalità ariostesca senza scambiarla con quella di un Biedermann dell’epoca) trova anche in queste lettere un tono di rapida discorsività equilibrata, accentrata intorno a nessi d’interesse non retorico, trova quel senso di realtà che non è una trasposizione assurda delle «cose», dell’empirica evidenza, ma un contatto ben piú che impressionistico che si ritrova entro una volontà letteraria nelle Satire e che nel Furioso verrà sublimato in naturalezza fantastica, in soprarealtà luminosa e senza crepe, ma non liscia ed oleografica.

Spesso, in quelle piú semplici e direttamente pratiche, il tono poco rifinito, quasi stentato di una lingua che si snodava e ingentiliva solo nelle espressioni poetiche, ci appare come il piú facile e scoperto attacco alla realtà piú comune e quasi un’ulteriore prova di quella mancanza di finitezza estetica che distingue l’Ariosto da letterati per cui la stessa «nota della lavandaia» si fa occasione di linda e agghindata scrittura. Ma a volte un uso rapido e poco insistente di mezzi schiettamente artistici ci mostra, in lettere come quella al principe Ludovico Gonzaga, dopo la fuga da Roma nel 1512 (distinta dal ritorno comico e incalzante delle citazioni latine in un ritmo da opera buffa), la capacità che l’Ariosto poteva svolgere in brevi rappresentazioni prosastiche di situazioni tra comiche e personali in una ricerca di tono non drammatico, non aulico, ma medio e desideroso di trapassare in ritmo piú deciso pur di mantenere la propria organicità. Tanto che in certe lettere poco manca che si sviluppino motivi che fortunatamente trovano poi il loro tono piú coerente nelle Satire. Cosí nel folto numero di lettere garfagnine quello che è un attacco pratico vita-condizione di poesia vive come volontaria rinuncia di gustosità preziosa e come prova di amore di espressioni immediate e grezze nella loro capacità di resa delle impressioni piú empiriche e meno elaborate. Provvisto di una coscienza che sapeva graduare la propria tensione poetica, l’Ariosto sapeva portare la propria forza creativa non ad una esaltazione continua della propria personalità, sapeva dirigerla a precisi compiti in una organica scelta e riserva sapiente di un fresco contatto con una poeticità non libresca.

Non calligrafo, non allucinato veggente, l’Ariosto controlla anche nelle sue lettere questa sua sobria assicurazione contro i rischi di una fantasia senza riferimento vitale e contro la provvisoria soprastruttura di un mondo puramente letterario ed ideologico. Egli varcava da un’esperienza vitale (tradotta in toni medi nelle Satire o nelle Commedie) ad una superiore realtà senza scambi arbitrari e senza anticipazioni dannose. Tanto piú libero nella creazione poetica e deciso in una ricerca di stile graduata e controllata, quanto piú saldo nella sua sincerità, nella sua interpretazione non fumosa della propria sensibilità, nel suo ripudio di falsificazioni gloriose.


1 Orlando Furioso, IV, 1, vv. 7-8. Cito dall’edizione a cura di C. Segre, Milano, Mondadori, 1976.

2 Si pensi, come ad esempio estremamente probativo, alla ripresa del poema boiardesco al punto in cui fu abbandonato, quasi che il Furioso ne fosse una scolastica e poco vistosa continuazione secondo i metodi dei cantastorie. Riprova anche dell’alto disprezzo di una originalità solo di contenuto e di racconto.

3 Liriche latine, XXXI (De Veronica), vv. 1-2, in Opere minori, a cura di C. Segre, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954, p. 66.

4 Liriche latine, LIV (De diversis amoribus), vv. 1-4, ed. cit., p. 88.

5 Egloghe, I, vv. 211-213, 220-222. Cfr. Opere minori, ed. cit., p. 233.

6 Liriche latine, I (Ad Philiroën), v. 6, ed. cit., p. 6.

7 Liriche latine, II (Ad Pandulphum), vv. 43-44, ed. cit., p. 12. Già sbagliata ci pare l’eccessiva attenzione posta da alcuni studiosi alle due composizioni citate come prova di passione nazionale e spunto di nazionalistici plaidoyers. Si ricordi intanto che nella Ad Philiroën c’è un chiaro riflesso oraziano (Odi, II, XI) e che, tenendo conto che la corte ferrarese era filofrancese, nell’ode Ad Pium l’accenno alla battaglia del Taro non porta alcuno sdegno nazionalistico ed anzi presenta una formula di impassibile ossequio per il re francese: «Magni Caroli generosa propago», Liriche latine, XIV, v. 101, ed. cit., p. 36. Tanto poco valgono le osservazioni di stati d’animo puntuali e collegabili a necessità artistiche, a formule tradizionali.

8 L. Ariosto, Satire, a cura di C. Segre, Torino, Einaudi, 1987, pp. 55-56.

9 T. Tasso, Il Minturno overo de la bellezza, in Dialoghi, ed. critica a cura di E. Raimondi, 2 voll., Firenze, Sansoni, 1958, vol. II, t. II, p. 916.

10 G.B. Pigna, I romanzi, Venezia, Valgrisi, 1554, p. 118.